Politiche della Natura. Per una Democrazia delle Scienze.

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Politiche della Natura. Per una Democrazia delle Scienze.

Autore: Bruno Latour

Pagine: XXII-320 p.

Descrizione

Come riempire il divario apparentemente incolmabile che separa la scienza (incaricata di comprendere la natura) e la politica (che ha il compito di regolare la vita sociale)?
Come colmare un divario le cui conseguenze (“scandalo” dell’amianto, sangue infetto, mucca pazza …) diventano sempre più catastrofiche?
Latour propone un modo di considerare l’ecologia politica che, secondo l’autore, passa attraverso una profonda ridefinizione del ruolo dell’attività scientifica e di quella politica.
Il volume è destinato a tutti coloro che si interessano di ecologia, di dibattito scientifico e, più in generale, a quanti ritengono che la questione della democrazia riguardi in prima istanza anche le scienze. Visualizza l’immagine su Twitter

Quarta di copertina

I Barbari fanno paura solo a chi è Barbaro“: la civiltà, invece, è sempre alla ricerca di altre civiltà, e non conosce estraneità di sorta. I “nemici” che oggi lasciano fuori dalle mura saranno probabilmente gli alleati di domani.

Ma se le cose stanno così, perché credere ancora a una Natura per principio estranea alle vicende umane? Perché insistere sul divario, apparentemente incolmabile, che separerebbe la Scienza, incaricata di comprendere il mondo naturale, e la Politica, che avrebbe piuttosto il compito di regolare l'”inferno sociale”?

Non si tratta solo di fare giustizia di vecchie opposizioni (razionale-irrazionale, oggettivo-soggettivo), ma di realizzare come la stessa idea di Natura abbia da sempre avuto una valenza politica.

La posta in gioco è pratica prima che teorica, come indicano le crisi ecologiche del nostro tempo (scandalo dell’amianto, sangue infetto, mucca pazza, degradazione ambientale etc.).

Bruno Latour propone un nuovo modo di considerare l”ecologia politica” che deve passare attraverso una attenta ridefinizione sia dell’impresa tecnico-scientifica sia dei ruoli dei vari “corpi professionali” che collaborano alla vita civile e mostrano nella pratica come la questione della democrazia tocchi anche i laboratori scientifici.

Bruno Latour. Politiche della natura

 di Sergio Benvenuto

RAI Educational – Enciclopedia Multi-Mediale delle Scienze Filosofiche: (Parigi, Ecole des Mines, 31 gennaio 2001)

Sergio Benvenuto: Per esempio Popper, il filosofo più influente oggi in Italia, fa parte della polizia epistemologica?

Bruno Latour: Ne è un perfetto esempio. Popper ha costruito tutta la sua filosofia della scienza su ragioni politiche. Nei suoi libri questo è assolutamente chiaro: ci sono solo pochi sparsi elementi che potrebbero resistere a un’analisi storica o sociologica del lavoro scientifico. Dunque sarebbe epistemologia nel senso di Duhem o del Poincaré epistemologo o di Foucault. Popper ha lavorato essenzialmente al problema di costruire una definizione delle scienze che permettesse di fare un certo lavoro politico, di impedire con eccellenti ragioni naturalmente, eccellenti ragioni che rispetto assolutamente, la manomissione delle scienze da parte del marxismo e del nazismo. La filosofia della scienza è ancora ossessionata dagli anni Trenta. Se si guarda a Bachelard, a Popper, a Lakatos, a tutti i grandi personaggi della filosofia della scienza, si vede che è ancora segnata da una battaglia che ha avuto le dimensioni di una tragedia. Se fossi vissuto a quell’epoca probabilmente avrei reagito come loro – o almeno credo. Allora trovare una filosofia della scienza capace di impedire la confisca della scienza da parte del nazismo e del marxismo era molto importante e perfettamente comprensibile a quel tempo, ma non più nel nostro. Ottanta o settanta anni dopo, abbiamo a che fare con problemi del tutto diversi, con una scienza il cui potere si è ampiamente diffuso all’interno della vita corrente, in tutti gli aspetti della quotidianità, sia mediante la tecnologia, sia mediante il dibattito sulla crisi ecologica. Dunque, se è certamente importante ricordare i conflitti e gli scontri in cui si sono impegnate figure come Popper e Lakatos, tuttavia per me non hanno un interesse attuale, ma puramente storico. Tutto ciò non ci permette di capire i problemi della mucca pazza, dei pianeti extraterrestri, della clonazione degli embrioni, ecc. Noi viviamo oggi in un periodo completamente diverso, dunque perché ci portiamo dietro una filosofia della scienza che ha settant’anni? È un problema grave. Come possiamo sperare di costruire la nostra politica, la nostra epistemologia politica, in base a una situazione di settant’anni fa? In Francia circola una battuta sui militari francesi che sono sempre in ritardo di una guerra: i filosofi della scienza sono in ritardo di due.

Sergio Benvenuto: Ha una risposta alla domanda: perché questo ritardo?

Bruno Latour: No, confesso che non so dire perché. Forse perché la situazione è stagnante. Comunque non comprendo perché, adesso che abbiamo accumulato centinaia di libri, o almeno un centinaio di libri interessanti sulla pratica scientifica, continuiamo a vivere con un equipaggiamento mentale e intellettuale così povero. Non comprendo perché, mentre uno scienziato nel suo laboratorio non accetterebbe di lavorare con uno strumento che data da più di cinque o sei anni, perché lo considera superato, noi per parlare di scienza continuiamo a servirci di un armamentario mentale che è quello di Popper settant’anni fa o addirittura quello di Voltaire duecento anni fa, come se si potesse parlare di scienza nell’epoca contemporanea con termini così datati. C’è una specie di debolezza, di cui il caso Sokal è un esempio sorprendente, un ritardo – diciamo – veramente incredibile nel modo in cui gli scienziati pensano la politica delle scienze, un rapporto con la politica talmente arcaico che in un certo senso è diventato difficile anche soltanto aprire la discussione.

Sergio Benvenuto: Qual è la sua opinione sul caso Sokal?

Bruno Latour: Ho imparato molto dal caso Sokal, perché ho capito fino a che punto era decaduta la grande tradizione del razionalismo, il declino che aveva subito la grande tradizione, legata ai valori della ragione, in cui mi sono formato anch’io, come lettore di Bachelard e di tutto il grande pensiero filosofico francese. Vedere l’esaurirsi di una grande tradizione filosofica e morale è stata per me un’esperienza estremamente importante, anche se mi ha un po’ addolorato. Credo che tutti abbiamo tratto profitto dal caso Sokal per chiarire un complesso di questioni, in particolare sul relativismo, sul realismo ecc. Direi che i nostri avversari, se così vogliamo chiamarli, non ne hanno approfittato altrettanto. Sono rispetto a noi in una posizione asimmetrica, perché continuano a pensare che la scienza, l’attività scientifica, possa essere espressa in termini di universalità, di obiettività, senza lavorare affatto, senza pagare il prezzo di una descrizione, che ricominci sempre da capo, delle controversie scientifiche, senza pagare il prezzo di rifare la storia delle scienze, senza pagare il prezzo di una nuova comprensione, da parte del pubblico, del lavoro scientifico ecc. Dunque ho imparato molto dal caso Sokal, su cui ho scritto un intero libro, L’espoir de Pandore.Penso che sia stato un caso interessante e che in fondo Sokal abbia avuto ragione di scatenare questo dibattito. Mi rammarico che lui non ne abbia tratto profitto.

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