Valutazione dell’omeopatia nel contesto del framework biomedico

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Il concetto di ormesi può fornire un quadro concettuale per la valutazione dei preparati omeopatici secondo il protocollo del post-condizionamento ormetico, basato sulle ricerche di van Wijk e collaboratori (Calabrese e Jonas, 2010; van Wijk e Wiegant, 2010). Secondo questa proposta, le dosi di medicinale somministrato devono rispettare i requisiti necessari per poter essere quantificate avvalendosi della chimica analitica. Da questo quadro di sviluppo può derivare quel “punto di contatto” scientifico che per molto tempo è mancato tra la comunità omeopatica e quella biomedica.

Edward J. Calabrese, Wayne B. Jonas – Tratto da: HIMed (Homeopathy and Integrate Medicine) anno 1, numero 2. 


Ormesi e omeopatia, gemelli diversi

In questo numero della BELLE Newsletter/HET, per la prima volta nell’arco di vent’anni, si affrontano le possibili correlazioni tra ormesi e omeopatia (Calabrese, 2010A; Calabrese, 2001; Harrison, 2001).

Le ragioni che spiegano la mancanza di una valutazione formale esterna e aperta da parte della letteratura sono complesse. Il motivo principale per cui si è evitato un argomento che rivestiva manifestamente una tale importanza, sotto il profilo storico e del dibattito scientifico in corso, è stato la volontà di molti leader della ricerca sull’ormesi di evitare che il concetto di ormesi venisse in qualche modo associato all’omeopatia (Calabrese, 2010B). C’è stata la volontà di “distanziare” questi due concetti, affinché se ne inferisse la distinzione tra ormesi e omeopatia, per quanto concerne le origini, le basi scientifiche, la valutazione e la convalida sperimentale e le applicazioni. In genere, gli studiosi che hanno sviluppato e ampliato il concetto di ormesi negli ultimi decenni hanno avuto un’educazione e una formazione di tipo scientifico tradizionale e sono stati a lungo inseriti nella cosiddetta scienza dominante, senza alcun legame con l’omeopatia. Alla luce di questa formazione e di queste esperienze, l’omeopatia veniva considerata una pratica medica fondata su una prospettiva filosofica anziché una scienza. Questo modo di vedere è stato corroborato dal fatto che nella pratica omeopatica si somministrano preparazioni medicinali in cui i presunti ingredienti attivi non sono verosimilmente più presenti, a causa delle diluizioni estreme a cui vengono intenzionalmente sottoposti in omeopatia (Calabrese, 2009).

Sebbene la questione non sia stata oggetto di considerazioni “formali”, fin dai primi passi della BELLE è sempre stato chiaro che era fondamentale che gli sforzi per studiare e approfondire l’ormesi si tenessero alla larga dalla prospettiva omeopatica: si riteneva che un’associazione con l’omeopatia avrebbe pregiudicato gravemente la ripresa dell’interesse scientifico per l’ormesi, e che il collegamento tra le due idee dovesse essere evitato ad ogni costo.

Di fatto, l’associazione storica tra i due concetti era considerata una sorta di “lettera scarlatta” sul “volto” dell’ormesi (Calabrese, 2001). Si trattava di un’associazione d’idee che andava attenuata, se non addirittura spezzata.

L’ormesi veniva vista come una scienza legittima e riconosciuta, poiché sperimentabile, convalidata, riproducibile, con fondamenta evoluzionistiche e basi meccanicistiche. L’omeopatia veniva invece vista come una pratica medica dai confini sfuocati, comprendente concetti filosofici e anche spirituali, il tutto miscelato con un cocktail bizzarro, ma non per questo convincente, di attività tecniche e scientifiche, alcune delle quali suscitavano semplicemente la perplessità, soprattutto tra i rappresentanti delle comunità mediche e scientifiche al di fuori del mondo omeopatico.

Poiché i professionisti sono molto attenti a tutelare la loro reputazione, era chiaro che nessuna delle personalità che gravitavano intorno alla BELLE voleva essere associata all’omeopatia, o essere considerata una sua simpatizzante. Al contempo, era frustrante riscontrare che c’era un flusso praticamente ininterrotto di pubblicazioni di orientamento omeopatico che istituiva un collegamento tra omeopatia e ormesi (Clement, 1997; Eskinazi, 1999; Satti, 2005; Mastrangelo, 2007), magari per cercare di avvantaggiarsi della crescente popolarità di questo fenomeno nella letteratura scientifica e nella comunità scientifica allargata. Nonostante questi sforzi da parte di alcuni dei rappresentanti dell’omeopatia, e nonostante le preoccupazioni dei leader nell’ambito della BELLE/dell’ormesi, che temevano che queste attività/pubblicazioni potessero compromettere la crescita e l’accettazione dell’ormesi all’interno della comunità scientifica, l’ormesi ha fatto notevoli progressi negli ultimi 15 anni, differenziandosi dall’omeopatia e facendo riconoscere le proprie credenziali nella scienza dominante, guadagnandosi un posto in alcuni importanti manuali di tossicologia (Klaassen e Watkins, 2003; Hayes, 2008), farmacologia (Hacker et al., 2009) e nelle scienze biomediche in senso lato (Le Bourg e Rattan, 2008; Mattson e Calabrese, 2010; Sanders, 2010).

Questo suo progresso si riflette anche nell’ampio numero di discipline scientifiche in cui l’ormesi ha evidenziato un notevole incremento delle citazioni nella letteratura. Per esempio, in tutto il decennio degli anni ‘80, le parole ormesi o ormetico risultavano citate circa 15 volte all’anno nel database Web of Science. Nel solo 2009, le citazioni erano quasi 2500, con un incremento superiore al 150%

Nonostante questo desiderio e questa necessità di distinguersi dall’omeopatia, la situazione è cambiata sensibilmente a causa di tre attività non correlate tra loro, ma che comunque si intersecano.

Il Post-condizionamento e l’ipotesi di Van Wijk and Wiegant 2010

Innanzitutto, nel 2007, una sessantina di scienziati biomedici di alto livello hanno proposto una nuova terminologia integrativa sullo stress biologico fondata sul quadro concettuale dell’ormesi (Calabrese et al., 2007). La novità importante è che questa terminologia integrava due concetti di estrema importanza, quello del pre- e del post-condizionamento, dimostrando che si tratta di manifestazioni ormetiche (Calabrese, 2008). Il secondo fattore è la successiva rivalutazione della ricerca di van Wijk e collaboratori, che avevano sviluppato un sistema modello terapeutico sperimentale come mezzo per studiare i possibili effetti dell’omeopatia. La loro metodologia è risultata molto promettente, e ha consentito di ottenere dei dati sperimentali riproducibili sul miglioramento della risposta adattativa a dosi basse in seguito all’esposizione agli stress chimici/fisici utilizzati per simulare una condizione patologica nell’essere umano.

Nonostante il loro potenziale interesse, queste scoperte non sono riuscite ad imporsi nella comunità biomedica. Il dato interessante per la nozione di ormesi era il fatto che la metodologia di van Wijk e Wiegant (2010) risultava pienamente coerente con gli esperimenti di Calabrese et al. (2007) sul postcondizionamento ormetico.

Secondo la definizione di Bellavite et al. (2010), quest’intersezione tra omeopatia e ormesi rappresenta un “punto di contatto” che valeva la pena di esplorare in prima battuta, per individuarne eventualmente altri, una volta esaminata più spassionatamente questa interrelazione.

In terzo luogo, l’ormesi aveva fatto notevoli progressi nell’assicurarsi basi scientifiche forti e un’ampia accettazione all’interno della comunità scientifica, ragion per cui ci siamo sentiti sufficientemente fiduciosi, ritenendo che l’ormesi avrebbe potuto facilitare la sperimentazione dell’omeopatia attraverso le metodiche biomediche moderne, senza con ciò mettere a repentaglio la sua reputazione crescente.

La problematica della dose/esposizione è fondamentale nello stabilire un punto di contatto tra ormesi e omeopatia. Proprio per questo motivo, il modello sperimentale post-condizionamento di van Wijk e Wiegant (2010) può essere un mezzo per avviare un dialogo scientifico costruttivo tra l’omeopatia e le moderne scienze biomediche. Come si è detto precedentemente, questo quadro concettuale funziona nell’ambito tradizionale della dose quantificabile somministrata a organi o cellule bersaglio, e colloca diverse ipotesi su fondamenta simili, sempre nell’ambito di un post-condizionamento che è l’approccio operativo e terapeutico standard. Sono queste le premesse su cui si è deciso di avviare questa raccolta di contributi. Abbiamo cercato di rappresentare un’ampia gamma di punti di vista: quello dei teorici dell’omeopatia (Fisher, 2010), dei ricercatori (Bellavite et al., 2010; van Wijk e Wiegant, 2010; Oberbaum et al., 2010) e dei medici omeopati (Bernardini, 2010; Fisher, 2010), ma anche quello degli oppositori più scettici (Moffett, 2010) e degli scettici con una mentalità più aperta (Rattan e Deva, 2010).

Tutti sono stati invitati a confrontarsi sulle possibili interrelazioni tra ormesi e omeopatia, utilizzando come punto focale della discussione la nostra proposta iniziale del post-condizionamento ormetico, senza però che ciò limitasse in alcun modo la loro riflessione. La lettura di questi contributi consente di capire come questi leader considerino l’ormesi e le sue potenziali applicazioni al campo dell’omeopatia, e come l’ormesi possa rappresentare un mezzo per sperimentare i rimedi omeopatici in ambito biomedico.

Questi contributi eloquenti illustrano come sia possibile addentrarsi in questo argomento, affrontandolo in modo costruttivo. Vorremmo concludere questa sintesi proponendo un secondo eventuale “punto di contatto”, che consiste nel trovare delle opportunità di valutazione delle risposte ormetiche a bassissime concentrazioni dotate di applicazioni biomediche. Questo tipo di esempio può rivestire un notevole interesse per la comunità omeopatica, a causa del concetto delle basse dosi, venendo così a istituire un secondo punto di contatto.

Le risposte ormetiche sono state per lo più studiate in vitro a concentrazioni comprese tra 10-12 e 10-6 M, ben distanti da quelle che si trovano frequentemente nelle pubblicazioni dell’omeopatia delle alte diluizioni. In questi casi, è frequente l’uso di concentrazioni di 10-30 M. Sta di fatto che nelle concentrazioni inferiori a 10-23 M (il numero di Avogadro) potrebbe anche non esserci più alcuna molecola. Non sembra pertanto esserci alcun punto di contatto tra ormesi e omeopatia al di sotto della soglia del numero di Avogadro.

Dual mode of catecholamine action on splenic macrophage phagocytosis in wall lizard, Hemidactylus flaviviridis.

Ci rendiamo conto che i ricercatori hanno imparato molto sulla chimica fisica dell’acqua a seguito dello studio delle altissime diluizioni usate in omeopatia (cfr. il contributo di Fisher, 2010). Forse questi studi produrranno importanti nuove scoperte che si tradurranno in un nuovo punto di contatto tra omeopatia e farmacologia/tossicologia. Attualmente, non crediamo che queste condizioni siano soddisfatte.

Ciò nonostante, esistono numerosi esempi di ormesi a concentrazioni inferiori a 10-12 M in un’ampia gamma di modelli biologici, endpoint e sostanze chimiche.

Uno di questi esempi è quello di Roy e Rai (2004) sugli effetti delle catecolamine sulla capacità fagocitaria dei macrofagi della lucertola muraiola. Nel loro studio hanno riscontrato che il cAMP agisce come un secondo messaggero, aumentando la risposta stimolatoria/adattativa ad una concentrazione di 10-18 M e inducendo la produzione di circa 120 molecole ogni 400.000 cellule (ovverosia una molecola di cAMP ogni 3333 cellule).

La bassa concentrazione di cAMP stimolava la sintesi di nuove proteine, che a sua volta comportava una maggior fagocitosi nei macrofagi, il che lascia supporre l’esistenza di una via genomica nella risposta stimolatoria alle basse dosi. Bloccando questo processo mediante trascrizione e traslazione, gli inibitori impedivano la stimolazione a basse dosi.

Questi inibitori, tuttavia, non influenzavano l’inibizione ad alte dosi, suggerendo l’esistenza di una via non genomica per l’effetto inibitorio delle alte dosi. Questo meccanismo di risposta, pur bisognoso di ulteriori chiarimenti, suggerisce un ampio ventaglio di possibilità, compresa quella dell’amplificazione intercellulare che si avvarrebbe di una cellula quale meccanismo di comunicazione cellulare.

La consapevolezza del fatto che i messaggi critici possono essere inviati ricorrendo a un numero relativamente esiguo di molecole mostra la grande efficacia potenziale dei processi di comunicazione biologica. Questo tipo di modello sperimentale potrebbe anche confermarsi quale ulteriore punto di contatto tra ormesi e omeopatia. Riteniamo che un sistema modello che utilizza bassissime concentrazioni di messaggero, come appunto la funzione immune della lucertola muraiola, possa rappresentare un esempio che potrebbe essere esplorato congiuntamente dall’omeopatia e dalle comunità biomediche.

Infine, siamo grati a Fisher (2010) per il suo commento, secondo cui il nostro “libro bianco” ha contribuito soprattutto a fare chiarezza, anziché surriscaldare gli animi (Calabrese e Jonas, 2010). Nutriamo la speranza che si possa dire altrettanto dei nostri commenti di sintesi, che hanno chiarito il comportamento passato della BELLE, e del sistema modello proposto, che consentirebbe di valutare i farmaci omeopatici e allopatici secondo l’approccio sperimentale del post-condizionamento ormetico. Vorremmo incoraggiare la comunità biomedica e quella omeopatica a sottoporre le loro opinioni su come sondare queste intersezioni disciplinari attraverso nuovi articoli e lettere all’editore.

Edward J. Calabrese, Wayne B. Jonas – Tratto da: HIMed (Homeopathy and Integrate Medicine) anno 1, numero 2.

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